Giovanni CESCA

Giovanni Cesca

Giovanni Cesca L’enigma del Presente
di Giorgio Baldo
2017

 

Un pendolo apparso dal nulla, con un bianco lenzuolo steso a coprirgli parte della faccia superiore e del corpo (o forse è la forma fantasmatica dell’invisibile che dietro alla veste bianca si cela a tenere tra le mani il simbolo del tempo), muovendosi aereo ed enigmatico in un luogo di forte oscurità appena rischiarato all’orizzonte da un luminosità magrittiana, tra il vegetale e il minerale, si anima davanti a noi in un gesto metafisico; apre la porta della sua interiorità e fa scoccare l’ora fatale. Battono i rintocchi.
Sono le due e quindici; il momento esatto della nascita del pittore. L’anno del quadro “Rintocchi” è del 2004.

I rintocchi a cui esso allude, annunciano al mondo che è nato un tempo ambiguo ed enigmatico: nel sospensione a mezza strada della lancia del pendolo, nella sospensione innaturale del suo moto (e questa sospensione è il presente che si interroga), il misuratore del tempo mostra indelebile l’ora magica della nascita di un “io”, l’inizio del tutto e, contemporaneamente, misura l’intervallo che da quell’allora è trascorso Il pendolo –sfinge di Cesca, nell’oscurità dell’inconscio, gli pone la sfida; ciò che in quell’intervallo si è creato è un mondo vero, colmo di una sua propria vita, di un proprio “visibile”; per quel pertugio aperto è ora il momento di inoltrarsi.
E il pittore risponde, decide.
Questo suonano i rintocchi: l’annuncio della nascita per Giovanni Cesca del tempo della memoria.
Della sua attualità. Che preme per farsi raccontare, per farsi forza attiva nel presente.
Per divenire un nuovo viaggio nella conoscenza del sé.

La mostra, nella sua prima parte, racconta l’oggi di questo mondo ritrovato con opere lungamente elaborate a partire dal 2000 sino ad oggi ; si scopre un luogo onirico, in cui la fantasia del pittore ha trasformato in antro magico e quasi alchemico il laboratorio sartoriale del padre.
Entriamo con Cesca nello studio in cui il padre sarto compiva i suoi quotidiani miracoli di trasformazione delle cose. Il pittore è bambino Tira i cassetti: e scopre in essi affastellati distese di bottoni di tante materie e colorazioni a formare ordinate composizioni, affascinanti campiture coloristiche.
E quasi s’indovina la mano del bambino che sente la consistenza tattile degli oggetti, le luminescenze della materia, le colorazioni brillanti, le combinazioni; e l’occhio ma anche la mano scruta, tocca, penetra nell’assieme lo scompone e ricompone.
Ogni cassetto è un universo di sorprese tattili, estetiche, compositive; da uno spuntano la serie delle cesoie, con personalità ben esibite di punte, arrotondamenti, lame larghe e sottili, impugnature strette o larghe quasi un’intera mano.
E poi, in un imperterrito presentarsi di vitali novità, ecco il cassetto dei ditali, degli elastici, degli spaghi … Siamo in un laboratorio visuale in cui ogni oggetto, ogni singolarità, svolge un suo ruolo vitale, ha una funzione armonica; la cesoia che taglia, il metro che misura, la macchina che cuce e fila e accanto, a loro disposizione, il mondo delle presenze che attendono il loro occhio e la loro attenzione, che di fronte a questi operai della trasformazione sembrano esibirsi al meglio del loro aspetto: ed è la scampolo multicolore di seta, il bottone d’osso traslucido, il filo coloratissimo degli spagnoletti .
Lo studio del padre ha un odore, un sapore, ha colori, mosse; e soprattutto ha lui, il grande tessitore, l’alchimista, colui che presiede: il padre.
Questo mondo infantile di sorprese amorose ha agito a fondo nel sentimento, nella fantasia e nel senso estetico di Cesca.

È questo mondo onirico oggi ritrovato sgorga ininterrotto la sua materia nel laboratorio mentale di Ccesca, in una accuratissima e chissà quanto a lungo ponderata rivisitazione nel suo interiore teatro di posa. Qui, prima di apparire, ogni cassetto è lungamente preparato, vissuto nella piena invisibilità dello spazio interiore.
E qui, colmo di questa sua carica gioiosa ed emotiva, Cesca sceglie il taglio prospettico , la dimensione propizia dellìoggetto, gli accosti, le relazioni compositive; tutto si potrebbe dire, a memoria, in memoria.
E una volta che il fatto plastico si sia accordato in composizione, comincia a provare su di lui l’animazione delle luci, luminescenze, consistenze e trasparenze quasi tattili.
Qui nulla è di intellettualistico; ma uno sgorgare di vita, un ordine interiore, un fascino del sogno e del suo comporsi; una luminosità di affetti; che scopre il ricordo del padre, il sentimento dell’antro magico e alchemico, la vita onirica, la danza delle forme della pubertà .

È questa vena onirica, rispuntata oggi in luce, dopo che per tutti gli anni dal ’90 sino ai primi del ‘2000 Cesca si era affaccendato in una sua ricerca sul paesaggio del visibile, del luogo dove abita, è quella che con la mostra abbiamo cercato di illuminare come elemento fondamentale e fondante del suo carattere di pittore.

Così nelle seconda parte della esposizione abbiamo cercato di riallacciare la consistenza dell’oggi alla ininterrotta stagione creativa degli anni ’70 (e in parte ma solo per sprazzi agli ’80) di Cesca.
È il tempo in cui, fresco di Accademia, preda quasi del furore giovanile di chi si sente predestinato alla pittura, l’artista cerca di dare configurazione e forma a un proprio “stile”, trovare una sua verità di segno, di spazio, di motivo.
Le sue preferenze suonano subito chiare, le miniere del contemporaneo a cui attinge appaiono certe; lo affascina il mondo metamorfico dell’onirico, del surreale.
Che si intreccia al suo interesse allora vivissimo per la scoperta della psicanalisi, lo sporgersi su un inconscio colmo di sorprese a volte terrifiche, ma sempre meraviglioso e spiazzante di una vitalità istintuale che si esprime per simboli, per lapsus, per enigmatiche presenze.
E qui in mostra vivono nelle forme protoplasmatiche a cui sembra dare vita e consistenza nei suoi mondi di china, in cui scorci di spazi prospettici, insorgenze di duro e molle, di buchi da cui emergono spezzoni di corpi, ibridi meccanici e antropomorfi ma sempre resi – così li vuole il mondo del sogno- in flessuosità che non si fissano, in metamorfosi in atto: mezzo corpo-mezza macchina, mezzo pesce-mezzo uomo…
Sono sintesi compiute o ormai solo sue quelle degli oli, in cui prova scomposizioni cubiste (ma è proprio la macchina Pfaff del padre in un quadro magistralmente resa alla Leger, ma più colorata in segmenti, e di una sua metafisica precisione), o costruzioni surreali; ma tutte piene di senso, non frutto di incongruità, di gratuiti automatismi.

Si diceva della vena onirica e surreale ; un ricongiungimento ci sembra avvenuto in questa mostra, che ci sembra illuminare i due versi del tempo; i cassetti aperti dell’oggi sono quelli chiusi nei primi quadri surreali della giovinezza; allora brillano del un rosso di una passione che attende il suo futuro, oggi di quelli di un passato capace di inondare di forza vitale il maturo presente.

Siamo certi che altre suoni e illuminazioni gli iniziali rintocchi sapranno propagare nel tempo futuro.