Giovanni Cesca. Forme del tempo e congetture dell'invisibile
di Giorgio Baldo (2020)
La
mostra “Viaggio in Oriente” nella sezione che presenta le opere di
Giovanni Cesca, illustra, per la prima volta in forma sistematica, gli
esiti di una ricerca iniziata all’incirca cinque anni fa.
Essa
segna uno stacco deciso rispetto a una vastissima ricognizione sul
“reale” durata per oltre due decenni, che si era indirizzata ad
originali riletture del paesaggio soprattutto veneto e a certe sue
personali rielaborazioni di un metafisico laboratorio sartoriale (il
padre ne era il dio) in cui si aggirano, tra fruscii, ombre e raccolte
concentrazioni di colore, macchine da cucito, tendaggi, bottoni
parlanti colti in un appartato teatro senza uomini, intenti tra loro ad
un dialogo intimo e sommesso, quasi memori di certi paesaggi d’interni
indagati dal Savinio più visionario.
Eppure
le ultime opere, concentrate a delineare un mondo fantastico, parallelo
a quello delle “Città Invisibili “di Calvino, come poi si dirà, che
sembrano così nuove e diverse rispetto alla sua precedente produzione
realistica, stabiliscono come un ponte ideale tra l’oggi e il periodo
del suo esordio sulla scena artistica, compreso tra il 1969 e la fine
degli anni ’70 del secolo scorso, in cui nella sua ricerca artistica
pulsava lo stesso spirito e lo stesso fuoco di conoscenza per i
territori profondi dell’io.
Le
ricerche di entrambi i periodi, quello della sua gioventù (che abbiamo
recuperato) e quello della sua tarda maturità, sono infatti
riconducibili all’investigazione dell’invisibile e del fantastico che
si cela nei vastissimi spazi del nostro inconscio e nel pulsare
profondo e arcano di un quid (il sacro), che guizza in un fantastico
nutrito da immagini e miti provenienti dalle grandi civiltà del passato.
È una pittura sospesa tra due tempi e due territori: il tempo del
mitologico e del religioso dell’”antico” da una parte, che vive nel suo
gioco di specchi tra "libri" sapienziali e rappresentazioni che in essi
trovano alimento per inventare metamorfosi, rapporti aurei,
architetture ideali, grottesche, emblemi, pitture del fantastico: e
questo è attingere al tempo e allo spazio della storia.
Similmente attinge al tempo del “moderno”, ugualmente fitto di enigmi,
che di quei territori dell’invisibile esplora in modo nuovo paesaggi e
presenze; ed è lo spazio-tempo degli eventi inventato nel primo
novecento dai surrealisti.
In quest’ultimo mondo, sulle orme dei suoi maestri, si inoltra con giovanile entusiasmo e passione Giovanni Cesca Non
vi è dubbio che, per chi voglia alla fine degli anni ’60, all'epoca
della rivoluzione dell'Arte povera, della pop Art, della Land Art e del
minimalismo, provarsi su questo terreno su cui per tanto tempo fino
agli anni ’50 si è misurato il surrealismo, sia arduo il percorso,
scarsissima la compagnia.
Quasi un autorelegarsi ad opere di
completamento e di rifinitura di viaggi e mondi esplorati da giganti
(sacerdote Eluard e quella vastissima trama dove, in spazi irreali e
inconsueti, si dipanano le grandi vie e le isolate costruzioni di un De
Chirico, un Mirò, un Dalì, un Max Ernst e via rifulgendo).
Pur
esiste, in quel crogiolo rivoluzionario dei sistemi di pensiero dei
primi anni 60 rivolti al nuovo e che quelle tendenze e movimenti
sembrano superare per andare altrove, un indubbio motore, un vulcano
tellurico attivo, che ancora riporta a inconsci da decifrare, a
linguistiche da rinnovare, a miti e archetipi , a civiltà sapienziali e
ad approcci antropologici di meravigliosa novità: è il Lacan e della
sua “rilettura” della psicanalisi (e del linguaggio) che diventa un suo
mentore per tutti gli anni ‘70; ma potremmo aggiungere tutto quanto
ruota intorno alla cultura "francese", dall’antropologia culturale di
Levi Strauss, alla ricerca sul segno e significazione di un Barth, alla
sociologia di Focault, allo stesso strutturalismo e così via.
È
la grande stagione del dibattito sul linguaggio, sull'inconscio che
parla attraverso di esso, il delinearsi di inusitati territori di senso
e significato che si aprono alla fertilità dell'interpretazione, della
destrutturazione e di un nuovo mondo simbolico da esplorare.
Cesca che segue la discussione sulla psicanalisi alla luce della
"provocazione" di Lacan, sceglierà del ‘68 questo versante pulsionale.
Il centro teorico e spirituale della sua ricerca giovane si misura in
questo “qui”, nel “dietro al paesaggio”: ma alla luce del “corpus” che
il surrealismo ha già prodotto come universo segnico, figurale e
immaginativo.
Se c’è una tradizione che accompagna in bene o in male l’esordio di
ogni artista nell’esplorazione del suo mondo, il surrealismo è la sua
“tradizione” di elezione.
Il
suo primo viaggio in questi territori di cui tra il 69 e il ’77 produce
quasi un resoconto in tempo reale, degli spazi e delle presenze arcane
che già quei maestri, prima di lui, hanno eletto a loro Oriente.
Da ognuno attinge; pur non essendo a nessun maestro riducibile, di
nessuno discepolo; anche se, a sentire le sue dichiarazioni, più lo ha
impressionato allora il Sutherland, sul quale ha svolto la sua tesi di
laurea all’Accademia di Venezia e, più ancora, il Tanguy cui forse deve
eterna riconoscenza per certe sprezzature coloristiche e compositive a
cui permanentemente attinge.
Ma una sua cifra personale ci sembra imporsi da subito (colta
inizialmente da pochi ma di grande spessore critico, come un
Ragghianti): ma i tempi dell’arte degli anni ’70 non sono quelli a cui
la sua arte interessi, come prima si diceva. E quindi nessun effetto
sasso sullo stagno, nessuna compagnia di strada o sistema-movimento che
amplifichi un messaggio o un esito. E così la sua diviene quasi la
coltivazione di un vizio solitario, un mormorio appartato, laterale. Un
auto-esilio dalle scene importanti. Talché alcune delle opere ora in
mostra escono dal mondo dell’ombra dal suo studio per la prima volta.
Ma quale contesto spaziale e sentimentale di sua propria impronta
immagina, nel quale farà recitare a collage, a pietre miliari, a tracce
sapienziali , le citazioni visive di quegli esploratori che l’hanno
preceduto? Il mondo degli enigmi e delle metamorfosi.
Vale
ancora, prima di affrontare il testo delle sue opere, dire di una sua
particolare credenza che nel corso degli anni si è sempre più
rafforzata e diviene componente ineludibile del suo immaginario: nella
volontà di comprendere e risolvere certi moti del proprio io, di
isolare le origini di certe segrete rigidità o debolezze o
comportamenti che gli dispiacciono o, per converso, di trovare correnti
di forza che lo aiutino nelle prove dell’esistenza, è attratto da un
sapere ermetico in cui trovare supporto.
Non solo nella sua arte: ma nella sua vita.
Crede negli alberi genealogici, in una loro forza intrinseca: quasi che
ogni nuovo ramo o frutto che sboccia nel presente, porti nel suo essere
una traccia spirituale e materiale viva e riconoscibile del tronco e
rami che sono stati prima di lui e nei quali si è innestato, andando su
su (o giù giù) sino alle radici risalendo all’Origine della catena, se
ne potrà vedere il volto nascosto.
Questo risalire lungo il corso delle generazioni precedenti per
conoscere sè stessi, questo legame con il passato che dipinge
metaforicamente come il sorgere di un individuo uscente dall’utero
della terra agli albori del mondo, sarà il moto e la linfa dal quale
saranno mossi a vita quale poi svilupperà arti, corpo e coscienza delle
sue pitture.
Ii destino individuale è intrecciato in una lunga successione di eventi
che scorrono l’uno dall’altro, da questa successione dipende il destino
futuro: colpe, difetti e qualità dei padri ricadono sui figli.
Come e successo per Edipo a Colono.
I cataclismi dell’essere dipendono talvolta dalle offese inferte in
passato (anche inconsapevolmente) a un dio vendicativo o alla rottura
involontaria di tabù insuperabili, (come l’incesto) che imbrigliano nei
loro confini la nostra insania istintuale.
Così la scienza degli oracoli, dei Tiresia, Pizie, Sibille che quegli
enigmi divini sciolgono osservando tracce per noi enigmatiche del
passato, portando alla luce la remota rottura di una legge divina o
umana, possono indicare il giusto rito espiatorio alla fine del quale
ci sarà una riconciliazione con l’ordine infranto.
O forse no; talvolta alcune colpe sono insanabili.
Ma almeno la fine tragica del proprio io, prima della cessazione di sé,
sarà illuminata dalla sapienza sul perché, sulla causa celata che l’ha
provocata.
Nel suo inconscio c’è tutto questo, c’è quell’albero. Questo passato,
questi segni, quelle tracce. L’inconscio, l’albero della specie,
contiene una delle chiavi del destino. Ma non solo lì esso si disegna.
Ci sono anche le presenze esterne, che operano fuori dal soggetto.
Presenze antiche, antiche immanenze.
Anch’esse possono essere “divinate”
L’enigma del mondo è un fatto fondativo: avvolge sia la genesi del mondo, sia la nascita di ogni soggetto che lo abita.
Il destino che ogni nascita accompagna è determinato, come ogni albero
sa, dalla configurazione astrale in cui è avvenuto il suo concepimento;
una notte di plenilunio, l’orbita di una cometa, l’ordine delle stelle
dello zodiaco, il soffio del vento primaverile e così via.
Ogni cosa del mondo che nasce e si sviluppa è in relazioni col tutto
mutevole dell’universo: il momento magico di ogni vita, dalla nascita
alla morte, in ogni nodo della sua crescita, da questo immenso respiro
è determinato.
Questo “Vento di venti” odano stormire le foglie del ramo del presente.
E di questi flusso astrali narrano le Sapienza antiche: gli oracoli
sanno leggerli nelle Stelle dell’ora, nelle ossa degli uccelli, nel
lancio dei dadi, nelle carte degli arcani. (che Cesca rappresenterà in
un ciclo degli anni “80).
Gli Astrologi e la loro scienza li leggono nelle configurazioni stellari dello Zodiaco.
In questi humus ermetico affonda le radici il surrealismo di Giovanni Cesca
>Il mondo è enigma.
Enigmi dunque: disseminati sul mondo, nella propria comunità e nel proprio io.
L’artista è insieme ricettacolo del loro soffio e oracolo per la lettura delle loro tracce.
Con
umiltà, decifrando il borbottio della Pizia e della Sibilla, sentendo
gli oracoli divinatori, saprà prima rappresentare quel mormorio e
discernere tra il profluvio di false e vere apparenze, la velata verità
del proprio destino. Si precisa via via la meccanica e il fine che presiede in questa fase il suo fare pittura:
registrazione “automatica” di ciò che è venuto autonomamente dal sogno;
su ciò che esce, sulla bozza stesa tra sonno e veglia, vicino alla
sorgente dell’illuminazione inconscia, fare poi “lavoro” d’artista:
infittire la visione originaria con scritture geroglifiche, dei egizi,
sfingi, uomini uccelli, ibridi, fantasmi mononucleari che esaltano un
senso (un orecchio, un occhio, una lingua…) Poi trovare un punto di
osservazione aereo per osservare dall’alto dei cieli questo mondo,Ed
ora ecco in scena: il grande teatro del mutevole di Giovanni Cesca
Gli spazi incorruttibili e il tempo lungo.
La spazialità di questo mondo riflette certi assoluti: nel mondo iperuranio esistono astratte purezze.
Il cielo è azzurro, la terra è piatta e liscia.
Nessuna complicazione come nuvole e montagne; un palcoscenico vuoto a cui si è dato il fondale di base, eterno.
Un cielo in alto, una superficie in basso, un orizzonte; per parafrasare il poeta "infiniti spazi e infiniti silenzi".
In questo palcoscenico si snodano gli avvenimenti del tempo, i suoi
laboratori di forme e presenze, la creazione del visibile.
Appaiono: le figure geometriche (un cubo, un parallelepipedo, una
sfera), gli apparati che misurano spazio e tempo (pendolo, formula,
ruga e compasso), figure ectoplasmatiche che estremizzano uno dei sensi
(l'occhio monoclonale, l'orecchio gigante) che pulsano di vita propria,
le figure ibride di uomo-uccello simbolicamente raffiguranti un
movimento insieme aereo e terrestre…
Le luci che illuminano questo mondo sono un complesso apparato
illuminotecnico, di ispirazione teatrale (o filmica) che scandisce di
effetti questo laboratorio del vivente, e da movimento al processo di
sperimentazione di nuove forme, del loro incrociarsi, del loro
combinarsi in cerca di un equilibrio, della loro miglior fusione ; e
danno conto del loro esito.
Cercano una identità.
E il tutto avvolto da un’atmosfera di tempi primordiali, di età
dell’oro, nel divino della Genesi: colore sempre pulito, brillante (da
smalti medioevali di Gerusalemme Celesti; in cui, più che il mondo
giocato fra luci e ombre trionfa la chiarezza paradisiaca dei contorni
, e la Rivelazione scaccia e dissolve con la sua luce ogni ombra
(dubbio, malignità, incertezza).
Mondo senza ombre.
O velature su velature si susseguono sul corpo del quadro per dare
profondità e accumulo di storia alla superficie dell’apparente; ma
sempre per arrivare ad una chiarezza percettiva che nulla lascia agli
sbuffi di colore, al puro gesto.
Poiché esso nell’immagine è trasceso, distillato in perfezione, in ascesi.
Questa prima fase del suo lavoro di ricerca dura all'incirca sette
anni: in essa (e la prima parte della mostra ne dà conto) un repertorio
di forme, luci e spazi viene fissato: prima nell'iniziale stazione del
laboratorio in bianco e nero, in cui la ricerca delle forme e delle
presenze del mondo dell'onirico e del metamorfico ha trovato
figure e volumi fondamentali; per poi passare al loro dispiegarsi in
uno spazio- tempo colorato, dove quelle forme sperimentali e quelle
presenze sempre ibridate si mettono in scena vestite di ogni decoro.
Nel vivo del testo delle opere possiamo seguire le diverse modalità in
cui la creazione in primo piano si articola mai fissandosi in una
identità definita; domina l'ibridazione metamorfica del corpo umano,
sempre riconducibile ad un significato emblematico
Figure mitologiche, uomo uccello, Sfinge..
Quasi che la parte non umana innestata sotto forma di animale o
vegetate o roccia, indichi trasfigurata una potenzialità o un desiderio
o una tendenza spirituale del soggetto stesso: un direzione di marcia
del suo destino. Ma accanto a questi racconti di metamorfosi e di
ibridazioni, un altro tema appare: non più incentrato sul corpo e lo
spazio dell'uomo, ma sulla creazione massima di quest’ultimo: la città.
La città e il tempo. La
sfinge egizia presiede l'entrata nella prima Città di Cesca: è colta
nel momento della rabbia alla nostra risposta al suo indovinello, prima
di suicidarsi gettandosi dalla rupe. Noi proseguiamo e vediamo la
nostra Tebe celeste staccarsi su di un fondale di nuvole, circondata da
un deserto di sabbia dorata e di spazio celeste.
Appare un
coacervo: le sue architetture sono un collage di memorie di
architetture del sacro delle vecchie civiltà: la colonna, l’obelisco,
il tempio, e il quasi primitivo addensarsi di edifici senza ornamenti.
La visione è un anticipo: verrà ripresa molti anni dopo.
Conclude in un certo senso la sua prima fase di apprendistato
artistico: che poi lo condurrà, come all’inizio si diceva, al lungo
periodo realistico
Le Città ParalleleIl
Salto. Liberandosi quasi dal vincolo del reale e delle sue
rappresentazioni cui per tanto tempo tra gli anni 80 e i primi del 2000
si è dedicato, ritorna alla fonte della sua ispirazione spirituale del
periodo giovanile.L’accensione
di questa fase che comincia intorno al 2016, deriva da una riflessione
su due capolavori di Calvino: le "Lezioni americane" (ma sullo sfondo)
e "Le Città Invisibili".
Il retroterra al centro di
quest’ultimo romanzo è noto: si riferisce al viaggio di Marco Polo in
Oriente che nel “ Milione", racconta dal vero le meraviglie che ha
visto lungo la Via della seta e nell’impero del Gran Khan.
Su questo precedente Calvino edifica il suo congegno narrativo,
inventando il resoconto che il viaggiatore veneziano fa al Gran Kahn
che l’ha mandato a osservare e riferire delle città del suo immenso
impero.
E il veneziano gli racconta di Città invisibili: il loro fascino sta
nelle verità che esse celano, scritte nelle qualità delle loro
architetture, nelle relazioni che esse intrattengono con gli abitanti
che le forgiano: Città sottili, Città dello sguardo, Città degli
scambi, Città della memoria ….
Qualità dello stare assieme dell’uomo, delle sue forme di convivenza.
È questo racconto di “Invisibili” che appaiono alla luce delle parole
di Calvino attraverso la descrizione dei loro spazi, delle loro forme,
del loro ordito intessuto con i fili del fantastico, tra fuochi
d’artificio narrativi, accendono in Cesca un fuoco immaginativo che da
allora non si è mai spento. L'operazione
in quattro anni si precisa e di continuo si alimenta: già allenato nel
periodo giovanile a trovare nei "Libri sapienziali" delle grandi
civiltà e religioni del passato, e nell’esplorazione moderna
dell'inconscio e dell'onirico le miniere del suo dire in pittura
ordisce anch’egli, prima ancora di un mondo, una analogo congegno
narrativo per crearlo..
Una sorta di viaggio di soglia in soglia lungo una Via della rappresentazione.
Primo mondo (solo logicamente non storicamente): il mondo del reale,
che lui ha rappresentato. Al suo confine si apre una porta. Si apre. Si
entra.
Secondo mondo: ci muoviamo in un mondo verbale che parla
dell’invisibile, che lo evoca, che ne traccia con le parole una catena
di immagini, che si condensano in un insieme: le Città
Invisibili.(Calvino). Alla fine di questo mondo ( di voci) si apre una
porta. Varchi la soglia
Terzo mondo: entri in un mondo fantastico, in un universo parallelo a
quello Calviniano: non voci, come in quello, ma immagini.
Il mondo di Cesca.
Il mondo delle Città Parallele.
Ognuna delle quali è collegata punto a punto con una delle Città
Invisibili di Calvino: con una serie di legami, di relazioni, di scambi.
Tra universi paralleli.
Quale spazio per le Città Parallele
È
lo spazio di un mondo che nella sua genesi e nel suo farsi è in
corrispondenza con i due mondi precedenti, che da entrambi prende
combustibile e materiali: che colloca nel suo visibile combinandoli in
uno spazio dinamico, in cerca di una sua identità.
Uno spazio
metamorfico: in cui le ibridazioni dei corpi della natura, che Cesca ha
sperimentato nella fase della sua giovanile pittura, vengono sostituite
da ibridazioni di paesaggi provenienti da mondi diversi.
Che tentano in questo universo parallelo un congiungimento.
Paesaggi
di memoria, paesaggi dal vero, paesaggi dell’onirico, paesaggi
archeologici, paesaggi cosmologici, paesaggi simbolici , paesaggi
mitologici Ecco il suo congegno narrativo in pittura:
L'insieme-universo di questi tre mondi è un tutto che si tiene, che
parla di relazioni, di corrispondenze, in un continuo gioco di rinvii,
riflessioni, specchi. Per
arrivare a delineare con precisione i lineamenti di uno spazio che
tenga assieme questa trilogia, inventando corrispondenze e relazioni
tra questi tre blocchi immaginativi (e spirituali), segue lo schema di
lavoro già sperimentato ai suoi esordi.
Prima il laboratorio di
disegno in bianco e nero (in cui l'abilità e le tecniche utilizzate
sono già di per sé spettacolo pirotecnico).
Il disegno è il sommo mezzo per dar forma.
Llbero da vincoli oggettivi di rappresentazione che non siano quelli
dettati dal suo proprio bisogno interiore, costruisce un mondo di
paesaggi di Città ideali.
Pone come mallevadore e protettore di ogni città magica cosi sorta uno Sciamano celeste.
Per osservare questo universo parallelo (e farlo osservare) trova punti
di vista siderali, quasi che gli osservatori del suo mondo siano
supposti come esseri abitanti in un empireo galattico o argonauti
(astronauti) del mare degli spazi profondi.
Poiché le sue città sono collocate lungo una “Via dei cieli e degli
spazi profondi delle costellazioni”, che attraversano un universo
parallelo a quello in cui viviamo.
Ma non illogico
Ognuno
potrà trovare nelle nove Città Parallele in sfumature di grigio che si
presentano come stazioni di sosta in questa lunga via, la rete di
richiami e di corrispondenze di cui abbiamo parlato; ripercorrere nelle
loro architetture, se vuole, la lunga fila di emblemi che riconducono a
civiltà antiche, ai mondi dell'onirico e dell'inconscio, a Vie della
seta spirituali e filosofiche, e così via.
Poiché
questi paesaggi vogliono essere enigmi: che contengono, ma dissimulati
da apparenze, verità sul mondo, sul senso della vita.
Verità che
sono talvolta celate allo stesso artista, che nel momento della
creazione non segue ragione ma simpatie di forme e di spazi, di voci e
ritmi musicali che provengono da un incognito invisibile.
(E la domanda sui significati di quello che esce da questi momenti
ispirati, scaturisce solo alla fine, vedendo cosa nel flusso è emerso,
cosa si è precisato. E mai essendo sicuri che ciò che si è fermato
sulla tela, celi veramente una verità, un segreto ultramondano: o non
sia solo gioco di forme, divertimento artigianale di un fare)
Per quanto ci riguarda ci sembra che ci sia, sullo sfondo di questo
tutto, una delle lezioni americane di Calvino che forse è chiave di
decifrazione formale di quest'ultimo lavoro di Cesca.
Non è quella dedicata alla Leggerezza o al Peso così esplorate e citate:
E la lezione dedicata all'Esattezza.
Come sempre l'opposizione tra due “essenze”, che in ognuna delle sue
lezioni funziona dialetticamente ad illuminare la qualità principale, è
centrale: l'Esattezza è in dialettica con la Vaghezza.
Ma quale vaghezza? Ed ecco Calvino citare Leopardi, che con parole
mirabili, descrivendone i “modi di dire” ( un certo paesaggio all’alba
solcato dalla nebbia, un certo tramonto luminoso sul mare….) ne
fornisce un elenco, quasi un repertorio che, nell’insieme, rende quasi
la vaghezza dell’insieme “un corpo del vago”, un determinato.
Che racchiude un universo delle stupefazioni esclamative che l’uomo prova nei confronti della natura cangiante.
Ma Calvino ci riporta all’esattezza.
Alla vaghezza del sentimento emotivo provocato dalla visione di un
paesaggio di natura, si oppone l'esattezza del segno, la mineralità che
lo struttura, che ne è base e confine.
L’Esattezza è la mineralità del diamante, la sua conformazione
mineralogica di cristallo, misurabile e incorruttibile, le sue
esattissime sfaccettature, la sua evidenza rocciosa, inscalfibile,
precisa.
Il puro del suo biancore.
Su questo prisma puro ed esatto, si scaglia la luce di ogni stagione
del mondo che lui riflette e rifrange con la pura luce che possiedono
le sue esatte superfici e il suo nucleo irradiante, creando nella
visione di chi lo osserva una vaghezza percettiva che complica, in un
incessante anello brillante, qualsiasi fissa percezione della esatta
verità che lo possiede.
l fisso immutabile dell’eterno del suo essere riflette e rifrange la vaghezza dell'effimero che lo colpisce.
Inscalfibile il diamante cela il suo interno palpitante di luce;
preciso rifrange e riflette qualsiasi raggio che con cui l flusso
dell’impermanente lo colpisce.
Certa la sua certezza, imprendibile la sua fissa verità : la sua Vera visione.
Dal diamante nascono configurazioni stellari, che illudono di essere
colte una volta per tutte… Ma che mai arrivano a scoprire l'essenza
dell'unico che nella sua struttura si cela e pulsa.
Non è possibile arrivare al nucleo del diamante, alla sua luce
interiore, nemmeno rompendolo: si scinderà in altri diamanti, sempre
più piccoli, sempre più minuti sino a che essi saranno così piccoli da
non essere più visti da occhio umano: ma brilleranno ancora
nell’invisibile.
Sempre il diamante conserverà la sua magia, il suo enigma. E così ci sembra che Cesca veda le sue Città Parallele.
Città Diamante, specchio di più universi, fusione di paesaggi in una
soglia sospesa nello spazio – tempo siderale, protesa con le sue radici
invisibili a trovare le sua terra di concepimento per trarne linfa
contemporaneamente dal visibile del reale e dall’invisibile della
fantasia.
Mondo sospeso di relazioni, di corrispondenze: con al centro una luce pulsante, da cui tutto si irradia.
E ciò che si cela nel centro della pura luce forse è il Dio: o forse
nient’altro che la luce di ogni singolo individuo, che è luce singolare
e magica del mondo: e le costellazioni di Città Parallele che appaiono
come stelle nel notturno del cielo, la loro ininterrotta danzaNota a margine
Nel tempo del “Game”, nell’epoca delle reti, dei virtual data,
dell’intelligenza artificiale e degli ipertesti multidimensionali, ci
piace pensare che ogni visitatore si impegni in un suo gioco personale
saggiando le corrispondenze tra “Città Invisibili” e le “Città
Parallele”.
Le prime cercano figure capaci di renderne il fascino verbale: le
seconde cercano le parole capaci di renderne il fascino visivo.
L’artista figurativo Cesca, quasi sdoppiandosi in artista bifronte,
oltre ad averle create ne ha scritto (noi abbiamo visto quei racconti
che, se vorrà, saremo lieti di pubblicare)
Ma quella è la sua interpretazione. Una delle tante possibili.
Poiché l’immagine, una volta uscito alla luce del mondo sta lì, nel quadro distinta e autonoma dal suo creatore.
Altre interpretazioni sono possibili accanto alla sua, altri racconti
alla loro visione possono forse trovare materia per un proprio ardere.
Questi racconti attendiamo da chi verrà a vedere le figure di questo viaggio.
Li registreremo: nel sito web del Museo del Paesaggio e chissà, forse
in una futura pubblicazione, saremo lieti di meravigliarci del loro
ordito.
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