Giovanni CESCA

Giovanni Cesca

GIOVANNI CESCA
di Virginia Baradel
1983

 

Di fronte alle tele dipinte di Giovanni Cesca la parola si sente a disagio, letteralmente fuori luogo, avvilita per la difficoltà di mediare: se il colore comunica di suo, senza impalcature concettuali, sembra inutile tentare traduzioni, inventare metafore. Ma, in qualità di ospite e parassita la parola critica può infilarsi tra le pieghe di quella stessa misura d'ordine che il pittore si dà, al riparo di quella segreta disciplina che tempera la dismisura della passione con il sollievo compositivo.
La soglia in questione è quel diaframma monocromo su cui ora si è attestato il limbo e l'osservatorio dell'artista: al coperto cova sepolto un passato di pittura stereofonica, allo scoperto si mostra un presente da promuovere, da provocare alterando frequenze tonali, osando tratti netti, materici, a colore impugnato con gusto maturo, quando l'autocontrollo diventa autolegittimazione a commettere l'atto impuro, sicuro di non lasciare sbavature, di non improvvisare.
Ne siamo convinti quanto lui, sappiamo che Giovanni Cesca dispone di una sua personale Biblioteca di Babele piena di lingue colorate, continuamente rilette e reinterpretate. Il suo è un passato di pittura a più dimensioni, di incessanti sperimentazioni sulle possibilità, le condizioni, le energie espressive del colore. Sotto quella mutevole monocronia scalpita un mondo sommerso che surriscalda la superficie tanto da procurarle dilatazioni e addensamenti, variazioni tonali, emozioni dirette che danno spessore e profondità alla composizione.
Le intemperanze dei colori, così sapientemente incoraggiate, ricordano il cavallo del Sogno di Politilo, pieno di amorini che cercano di trattenerlo, di cavalcarlo. Ma scivolano di continuo. Politilo sogna: nella "pugna d'amore in sogno" il cavallo è una scultura, nel testo letterario una illustrazione xilografica. Almeno quattro strati di materia letteraria ed iconografica per trasmettere un sogno, un sogno per Politilo talmente importante da non poter trasmettere in modo più scoperto.
Giovanni Cesca si comporta in un modo molto simile: proviamo ad osservare quanti strati di materia colorata, quante stesure sovrapposte egli si consenta per domare, per rendere "leggibile" la prepotenza creativa del segno colorato che si agita in un fermento sepolto: la sua Polia è Pictura.
Nasconde per poter meglio far vedere, distende e fa godere lo sguardo sulle variazioni monocrome per poter meglio farlo precipitare in ogni varco che in quella superficie si apre, scuotendola ed illuminandola tutta. Rivelazioni sul mondo sommerso provengono da ogni affioramento di luce che emerge dal fondo della tela, da ogni frammento di fatture policrome che lavorano spazio, luce e movimento nel chiuso caleidoscopio della propria fessura. I colori confinano, segni colorati si montano tangenti, superfici plasmate s'incrinano in una insaziabile tensione sperimentale che non teme il magnetismo dell'evocazione figurativa se pur questa è registrata dalla memoria come su un nastro di materia colorata, soggetta alle stesse urgenze del colore.
Nelle ultime opere gli affioramenti sono sempre più minuscoli e disintegrati, sempre più prossimi al Caos, tanto che il pittore si accompagna ad una cifra collaudata, rassicurante, la stella, per orientarsi, per non perdersi nella fascinazione dell'Origine, gravida di suggestioni e di lusinghe.
Vengono in mente i "sogni spaziosi" di Paul Klee: notando il fermento oltre la coltre di colore soffuso, le sue parole "Su un tappeto di erica e timo io sono tutto un incendio".

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