Giovanni CESCA

Giovanni Cesca

E verso la dimensione del sacro indirizzano altre opere di questo ciclo di Cesca, che non desidera recuperare solo un creato di archetipi, segni e colori accostati come sequenze di un film muto, ma è interessato ad immergersi completamente nel fiume magico e oscuro della memoria, recuperando in una dimensione avvolgente profumi, suoni e rumori di quel mondo. 

Dalla natura umida di un territorio d'acque è quindi indicativo che l'attenzione dell'artista sisia posata su un bronzetto identificato come suonatore di siringa, rinvenuto nel territorio di Sesto al Reghena, risalente al IV-II sec. a.C. e conservato presso il Museo Nazionale Concordiese di Portogruaro. Forte dell'antico fascino dell'arte cicladica, il reperto affiora tuttavia nella visione dell'artista quale "Suonatore d'Arpa", rievocando i suoni liquidi di uno strumento a corda: onde che si diffondono nell'atmosfera dolci e ritmiche, così come i delicati cerchi concentrici che sullo specchio d'acqua si propagano da un oggetto che incontra la sua superficie. Cesca non affonda quindi nel dionisiaco, ma sceglie l'eterea atmosfera di Apollo, ingentilita dalla cetra, dove tutto è misura, pensiero, equilibrio e armonia. Qui un artista rappresenta un altro artista e il "suonatore d'arpa" come solista su un palcoscenico dallo sfondo indefinito, ma luminoso e vibrante di energia, si offre al nostro ascolto. Il musicista si staglia dritto e sicuro e non contempla il suo strumento, ma guarda oltre di fronte a sé, verso la dimensione infinita dove la musica continua dopo che il suono fisico si è apparentemente estinto. L'opera non racconta allora una semplice azione, ma coglie l'attimo fuggente di un'illuminazione. L'essere umano qui perde i connotati naturalistici, sfumando quasi in un avveniristico alieno, costruito dalla sicurezza di forme nette e geometriche che rimandano all'intangibile del pensiero, componente che ancora ritorna in questo percorso di Giovanni Cesca. Così la forma astratta, che visualizza la razionalità incarnata nella presenza fisica, risponde a specchio alla musica che è forse da sempre la più astratta delle arti. L'artista non ha scelto di mostrarci il soggetto in posizione frontale: lo sguardo del musicista non incontra quello dell'osservatore, lo ignora e prosegue assorto nel suo viaggio verso l'atmosfera liquida in cui la ragione e le emozioni si incontrano; ma tuttavia quella creatura scolpita dal pensiero ci porge l'orecchio, piccola scura macchia che quasi lascia intendere la volontà di ascoltare il nostro mondo, per comunicare. Il richiamo alla realtà è invece prepotentemente ribadito dalla mano di grandi dimensioni che con il suo tocco dà vita allo strumento: insostituibile ponte tra la dimensione dell'arte e dell'esistenza è quindi l'uomo e la sua capacità di fare, che qui si esprime attraverso la memoria di mani sapienti che rendono unico ed irripetibile l'atto artistico.

Dalla sfera del sacro, secondo il procedimento di zoom e messa a fuoco già evidenziato per il pastello "Il guerriero – Heno...toi" è ritagliato il pastello "Il disco di Reitia", ispirato al reperto votivo rinvenuto a Musile di Piave in località Millepertiche (III-II sec. a.C.), conservato presso il Museo Archeologico Nazionale Concordiese di Portogruaro. L'oggetto incuriosisce la fantasia dell'artista, sbalzando l'immagine asciutta ed essenziale di una divinità femminile dei Veneti antichi, da identificare probabilmente nella dea madre Reitia. La figura campeggia monolitica e sicura come un idolo costruito dalle sequenze lineari di veste, braccia e gambe, interrotte dai motivi curvilinei che incidono il capo e tracciano il viluppo vegetale che come fascio di serpenti o edera cinge la veste alla base: quasi che per metamorfosi volesse incorporare in sé la presenza divina o come nuovo slancio di vita che germoglia dalla dea stessa. La forma circolare ritorna nei motivi a sfera realizzati a sbalzo e che ricoprono la superficie del disco, offrendo, in una dimensione metafisica ed immaginaria che si associa all'acqua (elemento che tra l'altro si richiama anche al contesto di rinvenimento del reperto), la suggestione di un paesaggio subacqueo in cui si aggirano misteriose presenze.
Ne deriva un'iconografia essenziale che ha in profondità la forza emblematica di un geroglifico e in superficie l'impatto di un motivo decorativo, di potenziale icona: un antesignano Liberty, qui sintetico e astratto come vuole la dimensione del sacro, nel quale, rinunciando al volume, la figura umana risulta un motivo decorativo all'interno di una decorazione più complessa che celebra la vita, anche attraverso elementi vegetali evocativi di un'eterna primavera. Come la forma circolare che racchiude quelle presenze e identifica l'oggetto, così la dea madre inizia e
chiude l'anello della vita, accompagnando l'esistenza attraverso riti di passaggio dalla prima luce alla morte, in un ciclo di eterno ritorno. Il fascino del disco consiste quindi per l'artista in quella sintesi scattante di segni ruvidi e decisi nei quali si cela l'assoluto di un mistero irradiato dal sacro, che innalza l'immagine a simbolo. Il reperto si impone nella sua concretezza di manufatto digerito dal tempo, non ancora trattato per rinascere all'antico splendore: affiorato dalla profondità seducente di un antico pozzo e delle sue acque, il disco è allora ritrovato e "restaurato" dalla memoria fantastica ed affettiva del pittore, che sommerge nuovamente l'oggetto nel suo mondo interiore, rendendolo parte di sé.

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