IL REALISMO MAGICO DI GIOVANNI CESCA, PITTORE DELLA FORMA E DELLA LUCE, ESTETA DELLA NATURA E DELLA STORIA
di Roberto Costella
2003
Le stagioni della sperimentazione artistica
La svolta
Le riscoperta della forma e della luce
I paesaggi fluviali
I paesaggi rurali, i paesaggi alberati e i paesaggi aerei
Le nature morte
LE NATURE MORTE
Nei paesaggi Giovanni Cesca si misura
dunque con la dimensione dello "spazio", interpretato attraverso una
natura di elementi originari, cioè la terra, l'acqua, il fuoco, l'aria.
Complementarmente una serie tematica sviluppata negli ultimi
anni Novanta è connessa all'espressione del "tempo" dichiarato come
memoria a sfondo storico-mitologico e soggettivo: si tratta delle
nature morte.
L'artista si confronta cioè con la dimensione del passato perpetuato,
con la questione del vissuto ricordato; in questa condizione sottratta
alle leggi del divenire, sono preferenzialmente cose e oggetti a
sedimentare la storia, a costituirsi forme semanticamente eloquenti.
Arcane testimonianze metafisicamente sospese compaiono in paesaggi come
Grande spazio del 1994 o L'albero di Reitia del 2000: si tratta di
presenze inconsuete ed evocative, capaci di esprimere stagioni remote
non meglio identificabili, confutando ogni impressione di momento
attimale.
Il vissuto emotivo, il ricordo affettivo e l'emozione intellettuale
riportano alla luce oggetti resi significativi dal tempo trascorso,
dall'esistenza condivisa, sedimentata e conclusa.
In Interno: luce di un nuovo giorno del 1995 ritorna la figura mitica,
dichiarata da un busto di Ermes che mostra un atteggiamento assorto e
meditativo; la scena costituisce una riflessione sulla transitorietà
delle stagioni umane e naturali sancendo la perennità dell'arte e il
suo valore metastorico.
Il tema della classicità ritorna anche in Luce nel ricordo del 1996, Il
testimone del 1999, Il capitello di gesso del 2000: sono disegni che
riesumano forme senza tempo, irrimediabilmente perdute poiché
manifestano un passato scaduto e, insieme, un presente impossibile;
inserite in spazi adombrati, si svelano in una luce rarefatta troppo
algida per essere solare.
Analogamente, ma senza alcuna citazione archeologica, l'opera
Trasparenze nella luce velata del 1997 esibisce un campionario di
oggetti abbandonati dall'esistenza: cristallizzati in un'irremovibile
astanza, documentano una stagione viva solo nel ricordo.
Espressione del tempo naturale prima che storico, ma estranee da ogni
contesto spaziale, sono le varie Conchiglie disegnate nel 2000: esse
costituiscono la testimonianza perenne della dimensione organica
configurata come "spirale della vita": apparentemente senza peso e
quasi senza materia, galleggiano in un'atmosfera sfumata sviluppando
armoniche traiettorie di colore-luce che poi si dissolvono nel vuoto.
Il valore simbolico delle forme intensifica la sua pregnanza se gli
oggetti appartengono o si riferiscono al vissuto dell'artista: il
valore aggiunto è dato dal rapporto d'uso, dalla dimensione di
necessità o di piacere connessi ad una vicinanza fisica protratta nel
tempo.
E' un legame quasi empatico quello che accomuna "oggetto riprodotto" a
"soggetto riproducente": Giovanni Cesca si identifica cioè con le cose
rappresentate; gli oggetti, individuati e selezionati, arrivano a
dotarsi di un'esistenza, interagendo quasi simbioticamente con chi tra
loro vive: riscattati da una mera funzionalità tecnica, queste forme
assurgono a presenze eloquenti capaci di segnare e dichiarare una
storia.
Lo scaffale dello studio e Il pesce d'argento del 1999 sono opere
grafiche che interpretano penne, matite, chiavi, boccette vitree,
reperti fittili presenti nell'atelier di Giovanni Cesca: sono cose che
vengono descritte con minuziosa e scrupolosa precisione per non
omettere nulla di un'identità formale che esprime anche una precisa
valenza emblematica. Oggetti apparentemente inanimati diventano vivi
grazie al loro significato recondito e, assumendo un'aura di misteriosa
sacralità, si trasformano in soggetti identificati, in presenze
testimoniali presidianti uno spazio sottratto alla temporalità.
La serie grafica più articolata e
rappresentativa della fine degli anni Novanta è dedicata agli Oggetti
della sartoria: avviata dal 1997 e realizzata in policromia con matite
e pastelli su carta a formato ridotto, è dedicata al padre Pietro da
poco scomparso.
Giovanni Cesca si pone alla ricerca di una
presenza estinta, ripercorrendo lo spazio del vissuto quotidiano che
ancora conserva le tracce materiali di una storia umana; ma
contemporaneamente la ricognizione segna anche un ritorno nei luoghi
del proprio passato, nella stanza delle stagioni più magiche e lontane.
Tra le mura della sartoria paterna gli oggetti di una vita riferiscono
ancora di chi per decenni li ha usati ma anche di chi fin dall'infanzia
li ha avvicinati; come dichiara Attilio Rizzo (2001) queste cose "…
parlano di un passato che non potrà mai essere modificato e che
costituisce la storia dei ricordi ".
Attendono Pietro del 1997 è immagine d'inizio serie e oppone la sagoma
acromaticamente scura e lontana della macchina da cucire alle
tante spagnolette vivacemente policrome e vicine: l'oggetto meccanico è
così isolato e freddo da rendersi incompatibile ai rocchetti pregni di
colore che presidiano il primo piano.
La scena vale come evocazione del padre, come immagine di un'assenza
fisica ma anche di una persistenza ideale. Il disegno, nella
inconciliabilità tra la sezione tenebrosa e quella illuminata, dichiara
una discontinuità che esprime la fine di un rapporto; l'opera segna una
tappa del percorso esistenziale dell'artista, la conclusione di un
capitolo di vita e la conseguente meditazione sui suoi effetti e
significati.
Per l'artista, proustianamente alla ricerca del tempo perduto, questa
rappresentazione costituisce la riscoperta della propria identità, la
riaffermazione del proprio Io.
Se la composizione Attendono Pietro riassume gli oggetti e il contesto
spaziale della sartoria come un microcosmo sublimato, i lavori
successivi tendono a concentrarsi su cose sempre più selezionate ed
omogenee, su sezioni sempre più parziali e ravvicinate: Giovanni Cesca
sembra intento ad "immergersi" negli oggetti rintracciati, tentando di
riscattare fisicamente ciò che ancora documenta una stagione estinta;
ma quanto è riportato in superficie dalla coscienza diventa per
l'artista conquista delle proprie radici, momento di riappropriazione
del proprio passato.
Le cose abbandonate senza più ordine funzionale e senza più ragione
materiale, si dichiarano memoria e nella loro concretezza fisica si
qualificano esclusivamente come un "tramite" tra storie, tra precise
identità che non potranno ricomporsi ma che comunque continuano
autonomamente ad esistere.
Le sequenze di Bottoni e di Ganci realizzano un campionario di forme
giustificate in termini testimoniali per commemorare una stagione, per
costituirsi poesia visiva di un mondo trascorso.
Dunque il percorso esistenziale di Giovanni Cesca insiste nella ricerca
del mondo familiare soprattutto per ritrovare se stesso, andando a
rintracciare forme significative nei ricetti più estremi: egli apre i
cassetti dimenticati come un archeologo le urne inumate, scoprendo
miriadi di reperti di un "corredo" recuperato metafisicamente al di là
del tempo.
Gli oggetti di queste composizioni valgono come presenza indiretta e
come presenza ritrovata; solo perché sottratti all'oblio, possono ora
assurgere ad una nuova vita e ad una nuova identità significativa. La
riqualificazione è conseguente alla perdita della funzione originaria e
si esprime attraverso la trasformazione in forma bidimensionale
figurata.
La definizione convenzionale di questa serie tematica meriterebbe
evidentemente di essere ridefinita almeno nominalmente: più che "nature
morte", sono immagini elaborate mediante un percorso di ricerca e
individuazione, di selezione e recupero che diventano "nature
reificate"; dopo essere scadute come forme fenomeniche ora ritornano ad
esistere nel mondo ideale dell'estetica.
Escluse dalla contingenza della temporalità e riscattate dall'oblio,
possono così esprimere storie di esistenze passate costituendosi forme
definitive e perenni.
Come scrive Marcel Proust del resto "dipende da noi rompere l'incanto
che tiene prigioniere le cose, portarle sino a noi e impedire che
cadano per sempre nel nulla": è lo stesso percorso che compie Giovanni
Cesca nelle nature morte come nei paesaggi.
E' la sua scelta etica, è il suo impegno estetico, è il suo realismo magico.
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